martedì 17 aprile 2018

Comprare sfuso e alla spina: i benefici di una spesa ecologica

     I tipici prodotti venduti oggi si presentano al pubblico con più o meno le stesse caratteristiche: confezioni coloratissime, carine alla vista, dalle forme simpatiche, accattivanti, con slogan coinvolgenti. In una società basata sull’apparire questo è il minimo.

     Il fatto è che quasi sempre dietro quelle confezioni così attraenti si nascondono prodotti realizzati da aziende che incidono pesantemente sull’aumento dell’inquinamento dell’ambiente. Questo inquinamento, di cui tutti alla fine risentiamo (anche se non ci sembra), avviene in virtù di due ragioni principali: la prima è il processo con cui viene realizzato il prodotto stesso, sia esso un prodotto alimentare o un detersivo o un detergente, che prevede l’uso di fertilizzanti o altre sostanze chimiche che l’ambiente non riesce ad assorbire bene e che spesso le aziende non si preoccupano di smaltire, portando a forti forme di inquinamento della terra e dell’acqua; la seconda riguarda la produzione delle plastiche che occorrono per i contenitori e gli imballaggi e per le quali vengono immesse nell’aria grandi quantità di anidride carbonica (CO2).


     I più tra noi sono così assuefatti a questo sistema da accettare l’idea che esso sia inevitabile, che non possa funzionare diversamente, nonostante non sia un sistema sostenibile perché, di fatto, sta facendo letteralmente morire il pianeta. Per produrre beni per l’enorme numero di umani sulla Terra vengono usati processi non ecosostenibili che per avvenire sottraggono risorse al pianeta e rompono gli equilibri naturali con cui tutta la natura funziona. E noi, che dipendiamo dalla natura per vivere, dovremmo ben comprendere l’importanza di tutto ciò.


     Eppure l’alternativa esiste eccome ed è anche più variegata di quello che si potrebbe pensare. La soluzione sono i prodotti alla spina e quelli sfusi ed è, se vogliamo, un ritorno al passato genuino dei nostri nonni: alcuni decenni fa, infatti, la spesa avveniva in piccoli negozi dove si comprava sfuso e si prelevava la quantità che serviva, senza essere costretti a comprare megaconfezioni dalle dimensioni predefinite. Era un modo più sano di acquistare.


     I prodotti alla spina sono oggi sempre più diffusi e cominciano a comparire anche in alcuni supermercati, oltre che nelle botteghe di commercio equosolidale.
     Il meccanismo è semplicissimo: il cliente preleva da un contenitore o erogatore la quantità di merce che desidera portando con sé un contenitore apposito o comprandone uno in loco una tantum che poi potrà riutilizzare. Il costo dipende dalla quantità di merce acquistata.
     Stop. Semplicissimo!


     Ma quali sono i vantaggi di questo modo più razionale di fare la spesa?
     Vediamoli uno per uno.

1. Si riduce la quantità di rifiuti immessi nell’ambiente
     Il fatto che i flaconi siano riutilizzabili scoraggia dal gettare via contenitori vecchi per ricomprarne (e quindi farne produrre) di nuovi. La plastica, tra l’altro, è difficilissima da smaltire e anche riciclarla non è semplice. Il riutilizzo è quindi molto più efficace del riciclo.

2. Si riduce l’inquinamento dell’aria
     Come detto sopra, la plastica necessaria per i contenitori e gli imballaggi immette nell’atmosfera la CO2, responsabile ormai acclarato dell’innalzamento della temperatura media del pianeta, che a sua volta ha provocato sconvolgimenti del clima tuttora in corso che portano alla rottura degli equilibri interni dell’ecosistema e ostacolano l’esistenza di molte specie animali e vegetali e, di conseguenza, riducono la possibilità di coltivare intere aree del pianeta, con conseguenti crisi alimentari, sociali, migrazioni e guerre. Coi prodotti sfusi e alla spina non ci sono imballaggi e il contenitore viene riutilizzato: questo scoraggia la produzione di nuove plastiche e abbassa la concentrazione di CO2. Inoltre anche le acque vengono preservate dall’inquinamento: moltissimi rifiuti finiscono infatti in mare e incidono sugli ecosistemi marini, danneggiandoli e facendo morire moltissimi animali.

3. I prodotti sono più sani
     Le materie prime per produrre alimenti o detersivi alla spina sono ottenuti con metodi biologici, ovvero senza ricorrere ad abusi di sostanze chimiche che “forzano” i ritmi di crescita e che inquinano le falde acquifere e il terreno. Le sostanze usate sono di origine per lo più vegetale, molte aziende non compiono sperimentazioni su animali e tutto è ottenuto in modo naturale, riducendo al minimo l’impatto sull’ambiente. In tal modo i prodotti alla spina si configurano come prodotti sani e rispettosi della salute del consumatore, oltre che dell’ecosistema.

4. Si riducono gli sprechi
     Il consumatore può scegliere liberamente quanto prodotto prelevare, comprando esattamente la quantità che gli occorre. A chi di noi infatti non è capitato di dover gettare un vasetto di marmellata con la muffa, dimenticata in un angolo? O di doversi disfare di frutta andata a male o di latte scaduto? Sono sprechi che coi prodotti alla spina possono essere evitati.

5. Ci si educa alla consapevolezza dei propri consumi
     Dovendo scegliere la quantità desiderata, il consumatore è infatti portato a riflettere su quanto consuma e in tal modo si rende conto in maniera più lucida dei suoi reali bisogni, oltre che del suo impatto sull’ambiente. Questa è una forma di sensibilità che abbiamo perso nel tempo a causa della “comodità” (che poi è inconsapevolezza) che gli acquisti dei preconfezionati sembrano fornire.

     Ecco quindi che comprare alla spina si configura come un modo intelligente di fare la spesa: chi compra alla spina non lo fa inoltre solo per un senso di dovere morale, non solo per semplice amore dell’ecologia. Esiste una motivazione anche più concreta ed è questa: aver compreso che la salute dell’ambiente coincide in ultima analisi la nostra salute; che da quell’ambiente noi traiamo il cibo che mangiamo e le materie prime per costruire gli oggetti che ci servono; che esso è la nostra casa: e prendersi cura della propria casa significa assicurarsi le condizioni per una vita di buona qualità, che è la prima lezione che l’uomo primitivo imparò quando smise di vivere da selvaggio e iniziò a civilizzarsi.


di Aniello Calabrese

martedì 6 marzo 2018

Riparare è meglio che comprare: ecco i vantaggi di un’abitudine da riscoprire

     Facciamo inavvertitamente cadere a terra il posacenere di ceramica, che facciamo? Raccogliamo i pezzi e lo gettiamo, comprandone un altro. Al mouse non funziona più la rotellina che fa scorrere le pagine, che facciamo? Lo buttiamo e ne compriamo un altro. Allo smartphone non funziona più la porta USB per l’alimentatore, che facciamo? Ci convinciamo che aggiustarlo non conviene e compriamo un nuovo smartphone.

     Quello di comprare (e ricomprare) compulsivamente è ormai uno schema comportamentale che si attiva di riflesso, senza nemmeno pensare, una specie di pilota automatico: oggi ci viene facilissimo pensare che una cosa possa essere ricomprata data la facile reperibilità dei prodotti e il loro prezzo accessibile.

     Ma questo modo di agire è giusto? O meglio: è sostenibile? La risposta è no.
     Quello del consumo compulsivo di massa, cioè spingere le persone a comprare più possibile, è l’obiettivo principale del modello economico che vige attualmente nel mondo: le aziende vogliono che noi compriamo sempre di più, che impariamo a dare per scontate le cose che abbiamo e a non tenercele strette.

     Il problema è che quando la gente si dà all’acquisto compulsivo ci guadagnano solo i proprietari delle aziende che producono i beni che acquistiamo. Ma dall’altra parte accadono tre cose non tanto positive:
  • in primis le aziende, per guadagnare sempre di più, non si fanno scrupolo a sfruttare con condizioni di lavoro al limite dello schiavismo le popolazioni dei paesi in via di sviluppo, con paghe bastanti appena a garantirne la mera sopravvivenza, senza rispetto dei diritti come la sicurezza sul lavoro, il giorno di pausa ecc;
  • inoltre queste aziende inquinano e distruggono l’ecosistema da cui estraggono le materie prime o nel quale fanno avvenire i processi produttivi, spesso in palese violazione delle leggi ambientali;

  • infine, da molti decenni, le aziende hanno ormai imparato che per massimizzare i loro guadagni devono produrre beni fatti apposta per durare poco, in modo che si rovinino o si rompano presto, così che la gente ne acquisti di nuovi, che a loro volta saranno progettati per durare poco: questo strategia, detta obsolescenza programmata (cioè invecchiamento voluto), fa sì che aumenti a dismisura il numero di rifiuti che noi produciamo e, si sa, i rifiuti inquinano l’ambiente, ovvero il luogo dove viviamo e che ci dà l’aria che respiriamo e il cibo che mangiamo.


     In pratica, nella nostra epoca comprare è un’azione che facciamo poco responsabilmente, perché il modo in cui lo facciamo permette a queste aziende di continuare a sfruttare lavoratori poveri e a uccidere l’ambiente.
     Dovremmo quindi usare maggiore razionalità quando acquistiamo gli oggetti, stando attenti a far loro avere la vita più lunga possibile.

     Ma come si fa a massimizzare la vita di un oggetto comprato?
     Uno dei modi più facili ci viene dalla saggezza dei nostri nonni e dei nostri antenati, che sono vissuti in un’epoca in cui procurarsi certi beni non era così facile come oggi e quindi bisognava stare attenti a come li si trattava: la riparazione.

     Aggiustare un oggetto è un valore che stiamo perdendo, non veniamo educati a farlo e a considerarlo una cosa buona. Anzi, in una società come la nostra, così basata sul possesso e che identifica il valore di una persona in base al denaro che si può permettere di spendere, riparare finisce perfino per essere motivo di onta.
     In realtà è una delle azioni più intelligenti che si possano fare, anche perché spesso un oggetto viene gettato via per una ragione poco grave e per difetti che potrebbero essere facilmente riparati.


     Riparare, aggiustare, accomodare le cose è conveniente almeno sotto due aspetti: fa bene al nostro portafogli perché ci fa risparmiare denaro che useremmo per comprare oggetti nuovi; fa bene all’ambiente perché riduce i rifiuti che produciamo quando gettiamo via le cose che potrebbero essere usate ancora.

     La cosa curiosa è che in altri contesti non diamo le cose così per scontate e anzi abbiamo tutto l’interesse ad ottimizzare la spesa, provando a non sprecarne nemmeno una parte.
     Ecco un esempio ipotetico: poniamo di aver vinto un buono spesa di 1000 euro per l’acquisto di un certo numero di oggetti, per esempio vestiti, libri, cibo da scegliere liberamente all’interno di un negozio. Come sceglieremmo i prodotti da portarci a casa? Sicuramente cercheremo di ottimizzare prendendo i prodotti migliori che, col loro valore, possano riempire il buono spesa al massimo, provando a non sprecarne nulla. Proveremmo, come detto, ad ottimizzare la spesa.


     Perché allora non lo facciamo anche quando compriamo in generale, dando invece per scontate le spese che facciamo per la maggior parte degli oggetti che acquistiamo? Perché nel caso del buono da 1000 euro sentiamo che, se non compriamo bene, perderemmo qualcosa di importantese non spendo bene, perdo ben 1000 euro!»), mentre nel quotidiano la nostra percezione è diversa, perché non riteniamo altrettanto importante il rischio di sprecare 700 euro per uno smartphone o 50 euro per un paio di scarpe, né riteniamo importante il fatto di contribuire a produrre inutilmente rifiuti, di inquinare l’ambiente in cui noi stessi viviamo, di alimentare un meccanismo economico aggressivo e non rispettoso dei diritti umani. Eppure anche quello ci riguarda, anche in quel momento stiamo permettendo uno spreco.

     È proprio da questa distorsione che dobbiamo guarire: ci servono nuovi occhi con cui approcciarci al consumo e per diventare consumatori intelligenti dobbiamo sapere quali sono le conseguenze dell'atto di comprare, soprattutto del comprare in modo indiscriminato.


     Ok, ora che avete capito l’importanza di allungare la vita dei nostri oggetti potrebbe sorgere la domanda: come faccio a riparare?
     Ebbene, la maggior parte delle volte possiamo riparare noi stessi gli oggetti, senza nemmeno dover pagare un tecnico. Basta avere le istruzioni giuste. E si dà il caso che oggi il mondo di internet sia pieno zeppo di tutorial che spiegano come si faccia.
     In questo articolo vogliamo suggerirvi una prima valida fonte: si chiama iFixit ed è un sito che raccoglie un gran numero di tutorial per la riparazione e lo smontaggio di oggetti fai da te.
     Nella sezione chiamata Guide di riparazione è possibile accedere a una vasta gamma di categorie di oggetti di cui si desidera ricevere le istruzioni sullo smontaggio e la riparazione/sostituzione di parti. Queste guide hanno tanto di foto e consentono spesso di cercare perfino il modello specifico di un oggetto.
     Esploratelo, troverete sicuramente informazioni interessanti.

     I giapponesi hanno da tempo ben chiara la lezione sul riparare e hanno sviluppato una bellissima abitudine quando un oggetto si rompe: lo riparano usando polvere d’oro, d’argento o di rame. Essi lo chiamano kintsugi.
     I pezzi di una ciotola frantumata, ad esempio, vengono reincollati e tenuti assieme da queste polveri di materiale prezioso, che appaiono come delle belle venature che conferiscono all’oggetto un’identità diversa, abbellendolo, impreziosendolo e rendendolo unico, diverso da tutti gli altri. La morale di tutto ciò è che perfino da un ammasso di cocci si può ricavare una piccola opera d’arte.


di Aniello Calabrese

sabato 17 febbraio 2018

Il potere di comprare: breve elogio del consumo critico

     Nessuno di noi trascurerebbe la propria casa al punto da farla cadere a pezzi, mettendone a rischio la stabilità e la sicurezza; allo stesso modo nessuno di noi permetterebbe ad altri di maltrattare ingiustamente le persone che vivono in casa nostra; ma soprattutto ognuno di noi avrebbe tutto l’interesse a garantire le basi più solide possibili per il futuro di coloro che verranno dopo di noi ed erediteranno quello che gli lasceremo.

     Immaginate ora che la casa di cui parliamo sia il nostro pianeta e che le persone che la abitano con noi siano gli altri esseri umani; immaginate poi che coloro che erediteranno il nostro mondo siano i nostri figli. Non dovremmo forse avere lo stesso interesse a preservare l’ambiente in cui viviamo, le persone che lo abitano con noi e il futuro delle future generazioni?
     Ebbene, purtroppo la maggior parte di noi non ha una visione molto lucida di tutto ciò, perché non riusciamo a sentire con urgenza le questioni riguardanti la distruzione dell’ambiente, i diritti dei nostri simili e il futuro dei nostri figli. Anche se queste tematiche hanno ripercussioni sulla nostra vita, non riusciamo a sentirle come questioni che ci riguardano, non lasciano in noi una traccia emotiva abbastanza forte.

     Il modello economico attualmente dominante si dedica sempre più spudoratamente allo sfruttamento indiscriminato di cose e persone per garantire l’arricchimento di pochissimi grazie al modo compulsivo con cui ci inducono a comprare.
     In nome del mero arricchimento economico, le aziende multinazionali sfruttano uomini e donne di tutte le età e non solo nelle catene di montaggio delle fabbriche, ma anche nelle miniere, sotto metri di roccia, o nei campi, senza protezione, senza assicurazione, con turni di lavoro e viaggi a piedi massacranti, senza diritti e soprattutto con paghe ridicole bastanti appena alla sopravvivenza della famiglia: parliamo di uomini, donne, bambini e anziani trattati alla stregua di schiavi, che non possono aspirare a niente, che non possono andare a scuola, avere un lavoro normale, che non possono coltivare alcun interesse, che strutturano il loro tempo solo per rimanere in vita.


     Parliamo anche di interi ecosistemi distrutti, depredati delle loro risorse senza rispetto per i naturali ritmi di ricrescita, di foreste che scompaiono, di incendi, di aree desertificate, di animali e piante che spariscono; parliamo di inquinamento delle acque, che provocano crisi idriche e di approvvigionamento, e dell’aria, che produce a sua volta l’innalzamento delle temperature, che provoca alterazioni climatiche, le quali a loro volta compromettono la coltivazione di molti prodotti che quindi non potranno più essere coltivati, provocando emergenze alimentari e facendo morire di fame milioni di persone.


     Parliamo anche di guerre fatte in nome di quelle risorse, guerre in cui muoiono persone innocenti, da cui scappano migranti creando emergenze sociali e flussi migratori incontrollati.


     Tutto questo è il prezzo che la popolazione mondiale e il nostro pianeta pagano per far arricchire pochissimi super-ricchi sacrificando milioni di poveri. Tipicamente e in via riassuntiva possiamo dire che ormai il sud del mondo funge da manodopera schiava per i paesi industrializzati che vivono sulla miseria, sulla fame, sul costante ricatto nei confronti dei paesi in via di sviluppo o poveri. E noi consumatori abbiamo un ruolo chiave in questo processo perché è grazie a come noi compriamo che le aziende che alimentano questi meccanismi possono continuare ad agire così. Il sistema economico attualmente dominante sfrutta sia i poveri produttori/lavoratori che i consumatori che comprano: anche chi compra, infatti, viene sfruttato dal sistema in quanto viene indotto a comprare compulsivamente, sempre di più, senza criterio anche cose di cui non h davvero bisogno, viene educato dalla pubblicità a non considerare il valore di ciò che compra né di chi lo ha prodotto, ma a dover continuamente ricomprare ciò che gli serve, così le aziende si arricchiscono sempre più a scapito di tutti noi.


     La buona notizie è che questo può essere cambiato.
     Chi compra ha un grande potere: il potere di decidere come saranno trattati il nostro ambiente e i lavoratori che producono i beni che acquistiamo.
     Quando si acquista un prodotto, infatti, si tengono in vita i soggetti che si sono occupati della sua produzione e si alimentano le azioni compiute per arrivare al prodotto finito. In pratica, si tiene in vita un certo modello economicoRisulta perciò essenziale sapere cosa ci sia dietro un prodotto prima di acquistarlo, per sapere se valga la pena di usare il nostro potere di compratori.

     È proprio in questo che consiste il consumo critico: il consumo critico è una forma di consumo più ponderata, ovvero un modo di scegliere i prodotti che non si basa solo sul prezzo, ma che tiene conto anche delle ripercussioni che la produzione del prodotto ha sulle sfere sociale e ambientale. Chi si sceglie di comprare in modo critico è quindi una persona che preferisce il più possibile i prodotti di quelle aziende che hanno un comportamento virtuoso, cioè che non sfruttano e non maltrattano le persone dei paesi poveri, che rendono trasparente la filiera produttiva, che non inquinano l’ambiente.
     Il consumo critico è quindi una forma di consumo razionale, perché, oltre a implicare l’intelligenza empatica da parte di chi compra («non penso solo a me, ma anche al resto del mondo, che è casa mia»), alimenta meccanismi di produzione virtuosa e modelli economici alternativi che tutelano l’ecosistema e i diritti dei lavoratori.


     Ma dove trovare alternative valide in un mondo che, a prima vista, sembra dominato dal mercato neoliberista delle multinazionali? A quanti di voi si sentono vicini a questo tema farà piacere sapere che le alternative non solo sono tante, ma esistono anche da molto tempo.

     È per questo che, ad esempio, è nato il commercio equo e solidale, che basa i propri standard di produzione sulla giusta retribuzione dei produttori (tipicamente sfruttati e sottopagati dal mercato tradizionale), sull’obbligo di fare investimenti nei paesi in via di sviluppo (che il mercato tradizionale prova invece a non far sviluppare), sulla trasparenza delle operazioni, come la provenienza dei prodotti e le filiere corte, sul metodo con cui vengono realizzate le merci, sull’obbligo categorico di tutelare l’ecosistema durante tutto il processo produttivo (ecosistema che invece viene deturpato e inquinato dal mercato tradizionale). In questo hanno molta importanza i prodotti realizzati secondo lagricoltura e l’allevamento biologici, che non danneggiano il suolo e gli animali che realizzeranno i prodotti alimentari che poi acquistiamo.

     Le pratiche del consumo critico non si fermano però all’acquisto dei prodotti equosolidali, ma assumono anche altre forme, tutte divenute già realtà e tutte diffusesi sempre più negli anni, diventando alternative sempre più alla portata di tutti.

     Ci sono ad esempio i gruppi di acquisto solidali (o G.A.S.), che consistono in acquisti in grandi quantità di beni generalmente alimentari o di largo consumo fatti in gruppo con altre persone e comprando direttamente dai produttori, non solo al fine di risparmiare (in tal caso sarebbero gruppi di acquisto generici) ma anche di creare dei nuclei di microeconomia etica in cui si valorizzino solo le produzioni virtuose che rispettino certi standard di rispetto per l’ambiente e per i diritti dei lavoratori.


     Ci sono i prodotti sfusi e alla spina, che consistono nel rifornimento misurato di beni come detergenti o cosmetici o cibo in modo da ridurre gli imballaggi delle confezioni e riutilizzare gli stessi contenitori, sempre per evitare sprechi e rifiuti (che inquinano l’ambiente).


     Poi ci sono le pratiche più quotidiane, come il riutilizzo creativo di oggetti, ovvero dare una seconda vita ad oggetti considerati obsoleti, destinandoli ad usi diversi, per non produrre rifiuti e ottimizzare la spesa fatta per acquistarli. Qui il consumatore critico si riconosce perché preferisce comprare prodotti di cui sa già che potrà fare un altro utilizzo.


     Le botteghe del mondo, o botteghe equosolidali, sono i luoghi dove potete trovare tutto ciò e noi, nel nostro piccolo, proviamo a rendere realtà tutto questo, con grande fiducia in questi valori e con il forte desiderio di condividere con il maggior numero di persone possibili le realtà che noi stessi abbiamo voluto creare.

     Ognuna di queste pratiche meriterebbe un approfondimento a sé, ma in questa sede volevamo solo dare una panoramica generale, per lanciare un messaggio chiaro: che cioè le alternative esistono, non sono pratiche per pochi eletti, sono anzi facili da adottare, alla portata di sempre più persone.

     Attenzione, però, lo scopo non è di essere integralisti a tutti i costi: sappiamo bene che è molto difficile pretendere di comprare solo ed esclusivamente prodotti realizzati in modo etico, ma ogni volta che sia possibile è bene farlo laddove il nostro territorio e i nostri mezzi ci permettano di preferire alternative più virtuose. Così facendo si usa bene il nostro potere di comprare, perché ci si prende cura del nostro pianeta, che è l’unica casa che abbiamo, dei nostri fratelli, dei nostri figli... e di noi stessi.


di Aniello Calabrese

venerdì 9 febbraio 2018

Tutta n’ata lunga e bellissima Storia


Sono passati quindici anni da quando un gruppo di persone, accomunate dalla voglia di lottare in difesa del territorio, misero insieme le forze per dar vita alla Bottega di Commercio Equo e Consumo Critico “Tutta n’ata Storia” a Nocera Inferiore, in provincia di Salerno. Tra loro Ciro Annunziata, scomparso un anno fa, che con le sue analisi e i suoi scritti apriva le menti a nuove sfide e traguardi da raggiungere. Insieme agli altri attivisti, è riuscito a far confluire nell’esperienza della Bottega le tematiche della finanza etica, della mobilità sostenibile, dei beni comuni, della lotta alla cementificazione e al consumo di suolo. Sognava una comunità di persone che condividessero spazi e saperi. E l’eredità che ci lascia è fatta di reti sociali e voglia di agire.

Era il 2001 – l’anno del G8 di Genova e della guerra in Afghanistan – quando ci fu il primo incontro tra Ciro e gli altri attivisti, poi diventati fondatori della bottega. In quel periodo, Ciro militava nel Comitato Antibarriera. Il Comitato voleva impedire la costruzione di un casello autostradale della linea A3 Napoli-Salerno all’altezza di Nocera Inferiore. Questo casello era un mostro dal punto di vista dell’impatto ambientale. Si sarebbe trovato in prossimità della città, sprigionando valori di benzene altissimi. E si sarebbe costruito a ridosso di una montagna fragilissima che, di fatto, avrebbe provocato morti con le sue frane. Ma, al di là di tutto questo, per Ciro era soprattutto una lotta contro la privatizzazione dei Comuni, contro una multinazionale (Benetton, che controlla Autostrade per l’Italia, maggiore azionista di Autostrade Meridionali) che usava soldi pubblici per creare un’opera più funzionale al pedaggio e che avrebbe devastato il territorio.


Il lavoro del Comitato, sebbene poi non riuscì ad impedire la costruzione della barriera, ebbe il merito di diffondere valori sul territorio che fino a quel momento erano sconosciuti, quali la partecipazione dal basso alle scelte politiche, la connessione tra gestione privatistica e beni comuni. Tutti valori poi confluiti nella bottega, aperta nel 2002 come centro di raccolta quotidiano delle istanze della collettività, nata grazie all’autofinanziamento di circa venti persone e basata sull’autogestione, senza nessun contributo pubblico o sponsorizzazione politica. Divenne luogo di incontro tra tante persone che, acquistando prodotti del Commercio Equo e Solidale, si interrogavano sulle tematiche della giustizia sociale e degli squilibri tra Nord e Sud del Mondo, azionando in tal modo il fermento politico tanto caro a Ciro.

Il Commercio Equo fu considerato come uno dei pochi strumenti pratici capaci di combattere un’economia di ingiustizia. Incanalava principi di partecipazione dal basso, grazie ad una filiera ben costruita e auto-organizzata in cui contadini, piccoli artigiani e cooperative si erano messi in rete, a partire dagli anni ’60, per creare una valida alternativa al commercio mondiale fondato sullo sfruttamento e l’ineguaglianza. La Bottega, come spazio di scambio quotidiano, si propose di “educare” le persone alla consapevolezza e al consumo critico, con l’obiettivo di mostrare il nesso tra l’acquisto e il riconoscimento dei diritti ai lavoratori, tra il consumo quotidiano di certi prodotti e l’impatto ecologico degli stessi, concetti all’epoca ancora poco diffusi in Italia. Da subito la Bottega collegò i principi del Commercio Equo all’Economia Locale, continuando l’esperienza del Comitato Antibarriera che, soprattutto grazie alla capacità di Ciro di far convergere varie battaglie, aveva già mostrato interesse e sensibilità verso i Gruppi di Acquisto Solidale. Così come continuarono le iniziative per la mobilità sostenibile, come le Critical Mass.


Gli attivisti della Bottega ricordano con un sorriso le perplessità di Ciro circa la prima Critical Mass in Italia: «C’è sempre stata questa querelle se in Italia la prima Critical Mass fosse stata fatta a Pisa o a Milano. Ciro diceva che molto probabilmente loro la facevano ancora prima. Il primo evento fu organizzato nel ‘96-97, pedalavano in mezzo al traffico indossando magliette con su scritto “lasciateci respirare”, definendo l’iniziativa proprio “Critical Mass”». I primi anni furono anche il periodo del “media-attivismo”. Con la collaborazione di radio indipendenti, periodicamente in Bottega si trasmettevano programmi di informazione sulle tematiche territoriali e globali. Vi trovavano spazio anche le lotte nazionali, come quella dei No-Tav, con collegamenti in diretta e interviste agli attivisti del presidio.

La Bottega ha fatto proprie anche le battaglie sui rifiuti e contro la privatizzazione dell’acqua: «Ciro ha portato la rete Rifiuti Zero a Nocera, ha abbracciato la visione di Paul Connett, con cui facemmo un incontro nel 2004, fondatore della strategia “Rifiuti Zero”. Le persone all’epoca non ci credevano. Era una visione troppo ampia. Nonostante ciò, siamo riusciti a costituire una rete e due anni fa si è spinta l’Amministrazione Comunale ad inserire nel proprio programma il “porta a porta”. Pur facendola male, la raccolta differenziata è arrivata al 50%, un risultato certamente migliorabile ma notevole se si pensa che prima eravamo al terz’ultimo posto nella provincia di Salerno. Oggi continuiamo a dare suggerimenti su come migliorare il servizio e parallelamente siamo impegnati per il disinquinamento del Sarno in rete con altre Associazioni del territorio».

Sul tema dei Beni Comuni, una delle battaglie più impegnative è quella contro la privatizzazione dell’acqua, attualmente viva. Da un incontro con Padre Alex Zanotelli nel 2003, da sempre in prima linea nella difesa dei beni comuni, si formarono i primi Comitati allo scopo di fare chiarezza sulle pratiche di gestione della risorsa idrica e allo scopo di sottrarne il controllo ad una multiservizi, GORI Spa, che già da tempo aveva messo le mani sull’acqua del comprensorio Sarnese-Vesuviano. Furono diverse le iniziative organizzate, anche in visione del Referendum popolare che si sarebbe tenuto nel 2011: biciclettate, flash mob, banchetti in piazza, cortei, convegni. In rete con altri gruppi, il merito della Bottega è stato soprattutto quello di aver favorito la nascita di una resistenza politica mai sperimentata prima in quei luoghi. Si sviluppò consapevolezza e contrarietà a certe logiche di gestione, tanto che, a pochi passi da Nocera, il Comune di Roccapiemonte fu l’unico dei 76 Comuni dell’area d’ambito Sarnese-Vesuviano a non cedere gli impianti idrici all’azienda privata, grazie ad un’azione di forza di alcuni attivisti che impedirono fisicamente il passaggio di consegne da parte dell’allora sindaco. La battaglia per la ripubblicizzazione dell’acqua ha avuto dei risvolti anche a livello istituzionale. Nel 2011 è nata la “Rete dei sindaci per l’acqua pubblica e gli altri beni comuni”, attualmente composta da una trentina di Comuni, per una gestione interamente pubblica del servizio idrico integrato.
Ancora la Bottega, come Comitato Antibarriera, si è sostituita alle Amministrazioni passate e attuali nel processo per la frana di Montalbino, costituendosi parte civile. La frana, avvenuta nel 2005, costò la vita a tre persone e nel processo che ne conseguì fu riconosciuta la responsabilità dei cavatori operanti sull’area. La condanna parlò di “negligenza, imprudenza e imperizia” in merito alla realizzazione di percorsi stradali e piste a servizio della cava, che avrebbero costituito pericolosi tagli orizzontali che peggiorarono le condizioni di stabilità del versante che, per ragioni naturali geomorfologiche, era già in equilibrio instabile. Il Tribunale di Nocera ha condannato i cavatori in primo e in secondo grado ma per un cavillo di notifica il processo è stato annullato ed è da rifare: «Verranno condannati di nuovo anche se nel frattempo c’è stata la prescrizione del reato di omicidio ma non quello di omicidio per frana colposa», spiegano gli attivisti. «Abbiamo scelto di partecipare al processo non per un fatto giustizialista ma perché il Comune non si è costituito parte civile. Il Comune, complice nelle autorizzazioni ai cavatori, ha preferito non costituirsi, il che è assurdo. Lo ha dovuto fare una piccola esperienza come la nostra, si è dovuta sostituire in qualche modo all’ente pubblico per difendere la montagna e i familiari delle vittime». Al di là del processo penale, negli anni è stata prodotta una grande quantità di documenti e dossier che sono serviti a diffondere un’informazione “critica” sulle problematiche territoriali. Tali studi sono confluiti nel progetto Safeland sulla riduzione del rischio idrogeologico a Montalbino, oltre ad essere stati utilizzati per i percorsi di educazione ambientale nelle scuole con un forte coinvolgimento di alunni, famiglie e docenti.


Intorno al 2005, con il sopraggiungere della crisi economica, la Bottega Tutta n’ata Storia ha dovuto riorganizzarsi. La contrazione dei consumi ha coinciso con l’ingresso dei prodotti del Commercio Equo e Solidale nella grande distribuzione. «Paradossalmente», commentano i volontari, «le piccole realtà come la nostra che negli anni 2000-2002 hanno cominciato a parlare di consumo critico, di agricoltura biologica, di sostenibilità ambientale, contribuendo alla diffusione su larga scala di questi concetti, oggi si trovano incapaci di competere con il mercato, con le grandi aziende esperte di marketing, più organizzate e con più soldi da investire». Le piccole botteghe che non hanno chiuso hanno dovuto rinnovarsi, soprattutto diversificando la gamma dei prodotti. Si sono trasformate puntando soprattutto all’economia locale, scegliendo prodotti a basso impatto ambientale e intessendo relazioni dirette con i produttori. Ad oggi la Bottega sostiene una decina di agricoltori locali, anche produttori di olio, pane, pelati. Si è aperta a progetti di economia carceraria, come il progetto “Lazzarelle”, una cooperativa di sole donne che produce caffè nel carcere femminile di Pozzuoli. Ma, allo stesso tempo, continua a sostenere il progetto di Commercio Equo del caffè del Chiapas “Tatawelo”, rinnovando l’impegno al prefinanziamento per l’anno 2018. In questo modo, la Bottega ha favorito l’incontro tra quello che Ciro definiva ironicamente e teneramente “militonto”, determinato ad appoggiare la causa Zapatista, e il moderno consumatore critico che sceglie di mangiare biologico e locale. Nonostante l’avvento dei social network rimane uno spazio fisico di condivisione e di confronto, seppure posizionato in una stradina di provincia.

Dopo la morte di Ciro, scomparso il 17 gennaio 2017, la Bottega si è riempita di nuova vitalità. Amici, volontari e conoscenti hanno mostrato la volontà di far proseguire le battaglie iniziate da Ciro insieme alla Bottega, di continuare il suo sogno di una grande comunità di persone che, senza interessi individualistici, senza compromessi e senza appoggi politici, avvii percorsi di crescita personali e collettivi per un’economia di giustizia. Si è costituita una Rete di Associazioni che regolarmente si incontra per fare proposte sulle tematiche su cui Ciro si era impegnato negli anni: “Rifiuti Zero”, beni comuni, disinquinamento del Sarno, creazione di un orto sociale – quest’ultimo forse la più grande passione di Ciro, come lui stesso mi rivelò qualche anno fa, mentre mi spiegava tecniche agricole innovative senza l’utilizzo di acqua e ci chiedevamo come sottrarre alla cementificazione terreni da mettere a disposizione della comunità. La forza di Ciro stava proprio in questo, nella sua capacità di analizzare e collegare i pezzi. Lo dimostrano i suoi studi – che la Bottega vuole raccogliere in un Centro di Documentazione – e la sua vita. Comprava locale, andava in bicicletta, compostava i rifiuti, abbracciava il mondo con un sorriso.

di Antonietta Buonomo
Fonte: Comune-info

sabato 20 gennaio 2018

Alternative e comunità: breve manifesto dei nostri valori

     Se, per ipotesi, prendessimo un bambino, lo crescessimo da subito in un mondo in cui esista solo il colore rosso e poi da adulto gli chiedessimo quale sia il suo colore preferito, di certo non potrebbe dirci di amare il verde, perché non l’avrebbe mai visto.
     Ora applichiamo questo ragionamento ai valori invece che ai colori: non puoi credere in un valore se non ne hai mai visto gli effetti. E se non credi in un valore, non lo coltivi.
     Si capirà bene come sia possibile condizionare un numero enorme di persone a credere o non credere in alcuni valori semplicemente tenendoli lontani da alcuni contesti, alcune realtà o, più in generale, negando loro la possibilità di conoscere le alternative.
     E invece più siamo esposti alle alternative, più cose conosciamo, più idee ci vengono, più siamo capaci di immaginare e creare noi stessi alternative nuove... e maggiore è la possibilità di realizzarle.


     Molti di noi non sono educati a credere nell’alternativa. La maggior parte degli uomini sono persuasi che i cambiamenti importanti tanto necessari nella nostra epoca (o anche nelle nostre vite personali) o non siano possibili oppure siano possibili solamente per concessione di una qualche figura messianica, una specie di salvatore che possa fare un qualche miracolo che sistemi le cose. A queste persone viene difficile credere che possano esserci strade diverse da questa che attualmente viviamo. E quindi accettano le cose così come stanno, in una passiva rassegnazione. E tutto finisce per rimanere com’è.

     E tuttavia costoro sbaglierebbero. Perché la storia (e la natura) hanno da millenni insegnato che ciò che un singolo vorrebbe fare da solo senza riuscirci è invece possibile se molti che vogliono la stessa cosa si associano.
     Si tratta di un principio universale, che riguarda tutti e vale a tutti i livelli: lo fanno ad esempio le formiche che solo insieme riescono a costruire quei capolavori di strutturazione sociale che sono le loro colonie sotto terra; lo fanno gli gnu che solo insieme riescono a muoversi con maggiore sicurezza in branco nella savana senza il perenne rischio di farsi sbranare dalle leonesse in caccia; lo hanno fatto gli uomini quando hanno edificato le prime società uscendo dalla vita selvaggia dello stato di natura.


     Perché allora certi problemi e certe contraddizioni della nostra società continuano a far sentire i loro effetti e a produrre danni nonostante sia desiderio di molti che essi vengano risolti? Perché in molti casi viene compromessa l’associazione tra le persone.
     Spesso è il potere, soprattutto quello economico, che produce questo impedimento. Condizionando la gente con la pubblicità e influenzando le politiche, esso educa individui isolati e impedisce alla gente di sentirsi parte di una comunità: in tal modo non viene facile far fronte comune per risolvere alcuni problemi o addirittura non ci si accorge nemmeno di certi problemi.

     Questo porta le persone a vivere nell’illusione di minoranza, ovvero quella brutta abitudine di credere di essere i soli a voler fare qualcosa di bello e di considerare gli altri come “nemici” o ostacoli alle nostre buone intenzioni.

     Vivere nell’illusione di minoranza ci condiziona scoraggiando le nostre azioni positive: «Vorrei fare la raccolta differenziata... ma cosa la faccio a fare? Tanto non la fa nessuno! Se la faccio solo io non fa differenza, quindi tanto vale non farla!»; oppure «C’è una carta per terra mentre salgo le scale del mio palazzo: la raccoglierei, mi piacerebbe un palazzo pulito, ma perché dovrei? Gli altri sporcano e io pulisco? Sta bene lì quella carta!»; o anche «Ci sono le elezioni, mi piacerebbe andare a votare... Vabbe’ ma tanto non ci va nessuno, se pure ci vado io che cambia? Meglio se me ne sto a casa».

     Se ciascuno si sente il solo ad avere buone intenzioni, allora nessuno sarà motivato a fare qualcosa per quei problemi che riguardano tutti. Illusione di minoranza: credere di essere i soli a fare qualcosa scoraggia a fare quella cosa. Il bello è che l’illusione di essere una minoranza riguarda quasi tutti noi, perciò esiste questo curioso paradosso: tutti vorremmo, tutti siamo ben intenzionati, ma nessuno si sente incoraggiato ad agire perché tutti ci sentiamo ostacolati dagli “altri”, anche se quegli “altri” vorrebbero fare la stessa cosa che vogliamo noi!

     Allora facciamo questo esperimento mentale: immaginiamo che tutti coloro (o anche quasi tutti) che desiderano fare qualcosa di bello (e sono la maggioranza!) non si facciano condizionare dall’illusione di minoranza. Immaginiamo che ciascuno di noi obbedisca in maniera fedele e sincera a quello spontaneo desiderio di miglioramento e si comporti di conseguenza facendo quello che è nei suoi desideri. Che cosa otterremmo? Otterremmo l’immediata risoluzione di quei problemi! Se ciascun condomino (cioè tutti i condomini) in un palazzo raccoglie una carta o evita di sporcare senza farsi condizionare dalla sfiducia negli altri, alla fine tutti si ritrovano un palazzo pulito e nessuno dubiterà negli altri.
     Agendo in questo modo gli sforzi di tutti, sommati assieme, raggiungono una portata enorme e l’effetto è amplificato.
     Non solo. Accadrebbe una cosa ancora più bella: scopriremmo di essere parte di un gruppo più ampio composto da persone che desiderano le stesse cose che vogliamo noi, si scoprirebbe di essere una comunità, ovvero, letteralmente, di essere uniti da qualcosa in comune. Vedremmo in modo diverso le persone che abbiamo attorno, saremmo più felici della loro presenza, il mondo stesso verrebbe percepito come un posto diverso, quindi ce ne prenderemmo cura di più e saremmo anche più in grado di insegnare tutto questo ai nostri figli, che sono i veri destinatari del mondo che creiamo noi.


     È proprio su questa logica che si muove la bottega Tutta n’ata storia. Nel nostro piccolo, nel nostro territorio vogliamo essere portatori di un’alternativa, un’alternativa che riguarda i consumi e i consumatori, ovvero gli interessi di tutti noi, ma anche la tutela dei diritti delle persone e del nostro territorio, cioè di casa nostra.
     E, per riuscire meglio nel nostro intento ci muoviamo all’interno di una rete, di una comunità, appunto, fatta di cooperative, volontari, appassionati, produttori locali e semplici cittadini che credono nei valori che sostengono il nostro operato.

     I prodotti equosolidali, biologici, a chilometri zero, le iniziative e le lotte sul territorio, il sostegno ad altre associazioni, l’educazione ambientale nelle scuole e molto altro in cui abbiamo la fortuna di essere coinvolti rappresentano il nostro contributo per rendere migliore la nostra realtà. Ed è una fortuna che abbiamo da ben 15 anni anche grazie al sostegno di chi crede in noi e nei nostri valori.

     A tutti coloro che ci hanno sostenuto finora e a coloro che, anche solo per curiosità, vorranno vedere in cosa consiste ciò che presentiamo va la nostra massima gratitudine. E ci auguriamo che sempre più persone possano conoscerci, per rendere quella comunità sempre più gravida di alternative.



di Aniello Calabrese